Grava sul datore l’onere probatorio relativo sia al fatto nella sua materialità, sia al rispetto delle condizioni di validità ed efficacia delle sanzioni; una volta provato il fatto, spetterà al lavoratore che voglia evitare la sanzione la prova della non imputabilità dell’inadempimento. La regola ora enunziata può trarsi in via di analogia dalla disposizione di cui all’art. 5, I. 15.7.1966, n. 604 ed altresì dalle norme generali in tema di adempimento. Infatti, poiché generalmente il comportamento del lavoratore che origina responsabilità disciplinare dovrà qualificarsi come ipotesi di adempimento inesatto, il datore, al pari che per ogni altro creditore, dovrà in concreto replicare alla prova dell’adempimento avversario, provando la violazione oggetto di contestazione.
Il datore, dunque, deve provare tutti gli elementi costitutivi del potere (fatto, tempestività e analiticità della contestazione, rispetto del principio di proporzionalità, affissione del codice, quando richiesta), quali presupposti, oggettivi e soggettivi, del potere”, non potendosi avvantaggiare di una sorta di presunzione di legittimità, come avviene invece per l’esercizio dello jus variandi, in relazione al quale si applica il principio per cui il demansionamento deve essere provato dall’attore. Ne consegue che, in disparte dalle norme processuali che impongono alle parti di prendere precisa posizione sui fatti di causa (ex art. 416, ult. co., c.p.c.), appare legittima anche la sola impugnazione del lavoratore che si limiti a contestare la legittimità della sanzione, senza nulla allegare.
Verrebbe da dire, dunque, che, anche per questo aspetto, il potere disciplinare si vede riconosciuta una speciale collocazione, che tende ad allontanarlo dai rimedi contrattuali, differenziandolo dal normale esercizio del potere datoriale; tuttavia, si deve segnalare come nella giurisprudenza più recente si tende a qualificare come danno da inadempimento ex art. 1218 c.c. anche quello conseguente al “demansionamento”, venendosi così a parificare le due situazioni”.
La specialità del rimedio disciplinare risulta altresì dalla disciplina legale relativa alla sospensione della efficacia delle sue manifestazioni. Il lavoratore possiede, infatti, il contropotere di paralizzare la sanzione, attraverso la sua impugnazione avanti al collegio di conciliazione ed arbitrato (art. 7, 6° co., st. lav.), almeno per tutta la durata necessaria allo svolgimento della procedura privata.
La differenza con la risoluzione per inadempimento è evidente, poiché qui non si tratta soltanto di valutare, anche ex post, l’idoneità del rimedio a determinare un effetto sul rapporto contrattuale, ma di paralizzare immediatamente l’esecuzione della sanzione, altrimenti suscettibile di essere unilateralmente attuata dal datore in forza del suo potere di organizzazione. Si tratta, dunque, di un elemento che utilmente dovrebbe essere utilizzato dalla giurisprudenza al fine di avvicinare la sanzione disciplinare agli ordinari rimedi civilistici contro l’inadempimento.