L’associazione in partecipazione è un istituto previsto dalla legge e disciplinato agli articoli 2549–2554 del Codice Civile. Più precisamente, esso è un contratto in virtù del quale il c.d. associante (l’imprenditore–proprietario della società) riconosce ad un associato una partecipazione agli utili in cambio di un determinato apporto.
L’apporto, fino alla riforma del 2015 del c.d. Jobs Act, poteva consistere anche in una prestazione di lavoro (articolo 2549 Cod. Civ.). In quest’ultimo caso, ovvero nel caso in cui l’apporto degli associati fosse consistito solo in parte nell’apporto di lavoro, la legge poneva il limite per cui gli associati non potevano essere più di tre, salvo che tra gli associati non vi fosse un rapporto di coniugio, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo grado. Nel caso in cui vi fosse stata la violazione di siffatto limite il rapporto veniva ritenuto come rapporto di lavoro subordinato, con tutto ciò che ne conseguiva anche in termini di contribuzioni economiche e previdenziali. Dal 2015 in poi, come detto, i nuovi rapporti potranno prevedere solo apporti di capitale.
Gli utili che possono essere riconosciuti all’associato possono derivare sia dall’attività economica “globale” dell’impresa, sia da singoli affari.
La gestione e la titolarità dell’impresa nel contratto di associazione in partecipazione
Nell’associazione in partecipazione, sia la proprietà che la gestione dell’impresa fanno capo esclusivamente all’associante e, di conseguenza, i terzi che intrattengono rapporti con la ditta (come creditori, debitori, fornitori..) assumono diritti ed obbligazioni esclusivamente verso l’imprenditore–associante. Pure nel caso in cui l’associazione in partecipazione abbia ad oggetto un solo affare la gestione spetta in esclusiva all’associante.
Autorevole dottrina ritiene che dell’apporto fornito dall’associato l’associante possa disporne come meglio crede, non essendo obbligato ad investirlo nell’attività di impresa o in un affare specifico (G. F. Campobasso).
Al di là di tali “libertà” previste in capo all’associante, la legge obbliga quest’ultimo a redigere un rendiconto dell’affare o un rendiconto annuale della gestione (se dura più di un anno), rendiconto che deve essere consegnato all’associato, al fine di mettere quest’ultimo in condizione di poter esplicare la sua facoltà di controllo rispetto all’attività di impresa.
Oltre a tali obblighi, la Giurisprudenza afferma che l’associante deve comportarsi secondo buona fede nell’esecuzione del contratto, che si declina anche con l’obbligo di portare a compimento entro un termine ragionevole l’operazione per la quale è avvenuta l’associazione.
Differenze tra contratto di associazione in partecipazione e rapporto di lavoro subordinato
Non sempre nel concreto, ogni volta che vi è un’associazione in partecipazione, la stessa può dirsi come “genuina”, in quanto delle volte, al di là del “nome” utilizzato nel contratto, nella realtà si “cela” un rapporto di lavoro subordinato, e la forma dell’associazione è data per motivi fiscali. Se gli enti preposti ai controlli dovessero ritenere che, contrariamente al nome dato, il rapporto presenta le caratteristiche corrispondenti alla funzione del rapporto di lavoro subordinato, vi sarà la trasformazione del rapporto in tale ultima tipologia, con tutto ciò che ne consegue anche in termini fiscali e contributivi.
Tra gli indici differenziali tra il contratto di associazione in partecipazione e il rapporto di lavoro subordinato in particolare spicca quello del “rischio di impresa”, che nell’associazione in partecipazione ricade anche nell’associato. Per rischio di impresa si intende quella situazione nella quale la retribuzione che può ricevere l’associato dipende dall’andamento economico dell’attività di impresa, per cui, ad esempio, nel caso in cui si registrino delle perdite, l’associato non riceve nulla ed anzi partecipa alle stesse (articolo 2553 Cod. Civ.); tale partecipazione alle perdite può tuttavia avvenire solamente nei limiti in cui egli – associato – partecipi agli utili.
Sempre la legge dispone poi che le perdite che colpiscono l’associato non possono mai essere superiori al valore del suo apporto. Peraltro, il contratto di associazione in partecipazione potrà pure prevedere una limitazione delle perdite per l’associato, così come si potrà prevedere che lo stesso non partecipi affatto alle perdite (c.d. cointeressenza agli utili); tuttavia, in tale ultimo caso, è opportuno che il concreto rapporto non presenti altri indici tipici della “subordinazione”, altrimenti si corre il pericolo di vedersi trasformato il rapporto da associazione in partecipazione in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Ciò in quanto quello del rischio di impresa è un elemento caratterizzante l’istituto in esame.
In taluni casi infatti la Giurisprudenza ha ritenuto il rapporto come subordinato laddove in capo all’associato mancava il rischio di impresa, perché nel contratto non era stato previsto che la sua retribuzione fosse variabile all’andamento economico (tra le altre: Cassazione Civile, Sezione Lavoro, n. 2496 del 21.02.2012).
Gli elementi tipici del contratto di associazione in partecipazione
Questi sono gli elementi tipici del contratto di associazione in partecipazione:
presenza del rischio di impresa nei confronti dell’associato con sua retribuzione variabile all’andamento della attività economica;
possibilità di esercizio della facoltà di controllo da parte dell’associato rispetto alla gestione societaria;
assenza di una retribuzione mensile costante;
rendiconto periodico;
rischio di impresa rapportato all’apporto conferito dall’associato;
l’associato non deve essere assoggettato ad un vincolo di dipendenza rispetto a chi si fa carico dell’organizzazione, né può essere sottoposto ad un potere sanzionatorio o direttivo da parte dello stesso;
Gli elementi tipici del rapporto di lavoro subordinato
Questi sono invece gli elementi tipici del rapporto di lavoro subordinato:
retribuzione fissa mensile;
inserimento stabile nella organizzazione aziendale;
assenza di ingerenza nella gestione aziendale;
sottoposizione del lavoratore al potere disciplinare, sanzionatorio e direttivo da parte del datore di lavoro;
assenza di partecipazione al rischio di impresa;
non partecipazione del lavoratore alla gestione dell’impresa;
assenza di controlli da parte del lavoratore rispetto alla gestione contabile della società.
Differenze tra il contratto di associazione in partecipazione e il contratto di società:
l’associato a differenza del socio non partecipa agli eventuali incrementi patrimoniali dell’impresa (come ad esempio al c.d. avviamento);
nell’associazione in partecipazione manca un autonomo patrimonio comune, che invece esiste nel contratto di società tra i soci;
nel contratto di società le parti effettuano dei conferimenti che sono diretti alla formazione di un patrimonio comune;
solo nel contratto di società vi è una gestione comune dell’impresa;
nel contratto di associazione in partecipazione la titolarità dell’attività fa capo esclusivamente all’associante, mentre nella società necessariamente a tutti i soci.
Nel dubbio, circa l’esistenza nel caso specifico di una società o di una associazione in partecipazione, la Giurisprudenza è solita ritiene che sia sussistente una associazione in partecipazione.
La qualificazione formale data dalle parti non è decisiva
Come si diceva, la qualificazione “formale” data dalle parti così come il “nome” utilizzato nel contratto non sono decisivi, in quanto la Giurisprudenza potrà effettuare un controllo globale e complessivo rispetto al concreto atteggiarsi del rapporto.
In caso di presenza di caratteristiche anche di un diverso rapporto, il Giudice dovrà valutare quale sia la funzione prevalente del contratto: se diretta veramente ad integrare una reale partecipazione in associazione, con rischio di impresa e retribuzione legata all’andamento; se vi siano dei controlli nella gestione; che non vi sia da parte dell’associante un potere di controllo, sanzionatorio e direttivo verso l’associato. La valutazione e la decisione circa la reale tipologia contrattuale instaurata sono quindi rimesse al Giudice.
C.d. cointeressenza di utili
La legge prevede espressamente la possibilità che sia stipulato un contratto ove l’associato partecipi agli utili ma non alle perdite di impresa (articolo 2554 Cod. Civ.). In questo caso manca dunque il rischio di impresa in capo all’associato; ciò che distingue tale fattispecie dal contratto di società è comunque il fatto che solo nel secondo esiste un patrimonio comune ed una gestione comune dell’attività. Dal rapporto di lavoro subordinato si distingue in quanto qui la retribuzione che spetta all’associato deve essere variabile all’andamento dell’attività di impresa.
Le caratteristiche dell’apporto nell’associazione in partecipazione
Nell’associazione in partecipazione l’apporto può consistere – come si diceva – in un conferimento patrimoniale, nel conferimento della propria manodopera, in una coesistenza di tali due apporti (apporto “misto”), ovvero in altra tipologia di apporto. Le parti sono dunque libere di stabilire quale apporto potrà essere fornito da parte dell’associante.
Degli aspetti fiscali dell’associazione in partecipazione
Con riguardo agli aspetti di tassazione/fiscali, occorre effettuare la seguente distinzione:
– per l’associante:
i guadagni dell’associato che abbia apportato beni, danaro, o beni/danaro più lavoro (apporto “misto”) costituiscono delle spese che non possono essere da lui “scaricate”.
– per l’associato persona fisica:
se l’associato ha effettuato apporti di beni, danaro, o lavoro più beni/danaro (apporto “misto”), le sue entrate sono tassate come dividendi di impresa, quindi come reddito da capitale; lo stesso associato non sarà soggetto al pagamento dell’Iva, purchè però presti la propria attività esclusivamente in favore della ditta alla quale è associato; altrimenti, se svolge anche altra attività in via autonoma sarà assoggettato al pagamento dell’Iva e dovrà aver aperto una propria partita Iva;
se l’apporto dell’associato consiste nella prestazione di manodopera, le tasse su di esso gravanti sono quelle tipiche di un lavoratore autonomo; non sarà soggetto al pagamento dell’Iva qualora svolga la sua attività in esclusiva in favore della ditta alla quale è associato; se invece svolge anche altra attività in modo autonomo sarà assoggettato al pagamento dell’Iva;
con riguardo alle aliquote applicabili al reddito dell’associato, se il suo apporto è “qualificato” (perché superiore al 5 % del valore della società alla quale è associato se trattasi di società quotata in borsa, o superiore al 25 % se trattasi di società non quotata in borsa) gli si applicherà un’imposta del 40 % sul suo guadagno; se l’apporto non è “qualificato”, sul suo reddito si applicherà una ritenuta di acconto pari al 12,50 %.
– per l’associato che sia una ditta/impresa:
i suoi guadagni si assommano al reddito di impresa e come tali vanno considerati ai fini fiscali; per le persone fisiche (come S.n.c., S.s.) la tassazione è del 40 %; per le società di capitali (come S.r.l. e S.p.a.) la tassazione è del 5 %; i suoi redditi sono poi assoggettati ad Iva, ma non nel caso in cui il suo apporto consista esclusivamente in danaro, o beni/danaro più lavoro (apporto “misto”).
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I vantaggi nella scelta del contratto di associazione in partecipazione
Per l’imprenditore, l’associazione in partecipazione può presentare degli aspetti interessanti dal punto di vista fiscale, in quanto, ad esempio, nel caso di perdite non dovrà pagare alcunché all’associato (a differenza di quanto avviene nel rapporto di lavoro subordinato, ove il prestatore di lavoro deve essere retribuito sempre e comunque), ed inoltre parte delle perdite potranno gravare sull’associato. I vantaggi per l’imprenditore consistono quindi nel realizzare economie sui costi del lavoro, nonché – e questo è importante – sul coinvolgimento emotivo dell’associato.
Va rilevato che nell’attuale fase storica l’utilizzazione del contratto di associazione in partecipazione è in forte aumento, presumibilmente sia per motivi fiscali sia per una maggiore “responsabilizzazione” dell’associato nell’attività di impresa.
Quando il rapporto si trasforma da contratto di associazione in partecipazione in rapporto di lavoro subordinato:
quando il Giudice ritenga integrata la funzione del rapporto di lavoro subordinato, in quanto manchino le/alcune caratteristiche fondamentali del contratto di associazione in partecipazione;
in caso di mancata partecipazione agli utili da parte dell’associato (è ammessa la prova contraria da parte dell’associante);
in caso di mancata consegna del rendiconto annuale all’associato da parte dell’associante (anche qui è ammessa la prova contraria);
quando, nel caso in cui l’apporto degli associati consista anche nel conferimento della propria manodopera, il personale in tal modo occupato sia superiore alle tre unità (tranne però nelle eccezioni indicate all’inizio del presente scritto – c.d. parentela) (ciò vale solo per i rapporti instaurati prima della riforma del c.d. Jobs Act del 2015);
nel caso in cui le prestazioni dell’associato non siano caratterizzate da un elevato grado di competenza specialistica del settore ove opera l’impresa, che siano state acquisite o tramite un importante percorso formativo o per mezzo di una rilevante esperienza lavorativa (vedi il secondo comma dell’articolo 69 – bis, lettera a), del Decreto Legislativo n. 276 del 2003);
nell’ipotesi in cui più di tre associati prestino la propria attività lavorativa in una medesima attività; qui il rapporto verrà sempre trasformato in rapporto di lavoro subordinato, tranne che i lavoratori siano familiari o parenti dell’associante (cfr. nuovo art. 2549 Cod. Civ.), e fatta altresì eccezione per le imprese mutualistiche e per quelle che operano nel settore audiovisivo.